DOLORI CRONICI ALLA SCHIENA Il 25% della popolazione soffre di un dolore cronico

DOLORI CRONICI ALLA SCHIENA Il 25% della popolazione soffre di un dolore cronico

Circa il 20/25% della popolazione soffre di un dolore cronico con picchi al 60% in età superiore ai 65 anni soprattutto prevalenti nelle donne.

Il dolore cronico pare incrementarsi nei prossimi anni immaginando che la popolazione over 70 anni nell’80% entro il 2030 sperimenti ciò.

Il dolore cronico è una condizione invalidante che crea elevati costi sociali.

Sicuramente nell’ambito del dolore cronico le patologie muscolo scheletriche in particolare del rachide sono quelle più rappresentate (fino al 37%).

Questa condizione clinica si caratterizza dalla cronicità e spesso si accompagna a ansia, depressione, attacchi di panico, kinesifobia, claustrofobia e altre problematiche psicologiche.

Di qui si comprende come oggi sia determinate nella cura del dolore un approccio pluridisciplinare.

Queste caratteristiche sono determinate dal fenomeno della sensibilizzazione periferica e/o centrale, che sottende il dolore nociplastico.

Nei pazienti con dolore cronico, la sensibilizzazione centrale è associata ad una riorganizzazione funzionale a livello di connessioni in diverse aree cerebrali e brain connectoma: corteccia prefrontale, corteccia cingolata anteriore, amigdala e lobo dell’insula nucleo anteriore e grigio periacqueduttale solo per citarne alcuni.

Abbiamo quindi una riorganizzazione della neuromatrice del dolore, o “Brain Connectoma” (Seug 1995). Queste modifiche sono in gran parte reversibili, e ciò le rende il nostro target terapeutico.

La letteratura scientifica è ormai abbastanza unanime nell’indicare, per i disordini muscoloscheletrici cronici, un approccio terapeutico volto ad educare la persona con dolore sulla natura e sulle peculiarità del dolore stesso, e a far lavorare attivamente la persona, attraverso l’esercizio terapeutico e l’introduzione graduale di attività fisica.

Lo scopo fondamentale dell’educazione è quello di andare a riconcettualizzare l’esperienza dolorosa per il paziente. In altre parole, dovremo portare la persona con dolore persistente a concettualizzare lo stesso non come la conseguenza e il sintomo di un danno strutturale, bensì come una risposta iperprotettiva che il sistema nervoso (in stato di iper-attività), metterà in atto in risposta a stimoli innocui.

Inoltre, sarà opportuno affrontare le yellow flags che rappresentano un ostacolo al recupero.

Con questo termine si intendono fattori di tipo psicosociale (paura del movimento o kinsesifobia, catastrofizzazione, atteggiamenti da paura/evitamento, credenze disfunzionali sul dolore ecc. ecc.).

Il processo educativo non andrebbe intenso come da effettuarsi una tantum, ma come un continuo riconcettualizzare ciò che il paziente riferisce e ciò che noi proponiamo al nostro paziente in un’ottica di neuroscienze contemporanee.

Una delle modalità più utilizzate per l’educazione è la cosiddetta Pain Neuroscience Education, che si propone di trasmettere al paziente una serie di informazioni utili a conoscere, comprendere e saper gestire il proprio dolore in un ottica di moderne neuroscienze del dolore (AEDO: va educato e informato, deve prendere progressiva coscienza della malattia e deve decidere di iniziare il trattamento riabilitativo desensibilizzante come l’Aedo greco faceva con i suoi canti).

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